La Chiesa di Santa Croce
Lo svelamento riguarda la chiesa conventuale di Santa Croce a Villa Verucchio, nata da una delle più belle leggende francescane: il Santo di Assisi si fermò a pregare e a riposare in questi luoghi, dove esisteva già una cappella rustica, e dal suo bordone piantato a terra nacque il cipresso monumentale che a tutt’oggi
domina il chiostro. Già prima della morte di Francesco, i frati che lo seguivano cominciarono a dimorare in Villa, e, grazie alla loro opera è sorto uno dei più antichi conventi dell’Emilia Romagna. I Francescani del luogo, sono ricordati nel testamento di Malatesta da Verucchio, nel 1311 e beneficati di «soldi cento
ravennati», per il suffragio della sua anima.
La Chiesa è stata oggetto dal XIII al XX secolo d’importanti interventi architettonici e artistici, ma i suoi tesori più suggestivi appartengono al Basso Medioevo, a partire dalla croce duecentesca, sospettata a lungo di essere una copia di un originale perduto, ma il cui testo pittorico, in verità, riposa dietro a molte ridipinture.
Anche su questo prezioso manufatto, unico nel territorio riminese a riprendere il modello canonico bizantino del Christus patiens, adottato da Giunta Pisano e Cimabue, si attendono fondamentali rivelazioni dal futuro restauro.
Gli affreschi
Celati nell’abside della Chiesa, dietro all’antico coro ligneo, emergono dei frammenti di affreschi, complesse narrazioni, incorniciate da sofisticati decori geometrici, che, come in uno specchio e in forma di enigma sembrano riferirsi al mistero della Croce, che intesse i momenti fondamentali della vita di Francesco.
Il primo oggetto d’interesse è la nicchia che si trova a destra dell’abside, suddivisa su due registri: in alto ospita un’Imago Pietatis di somma bellezza, un Cristo morto che, ergendosi a mezzo busto sul sepolcro evoca insieme il rigore composto e silenzioso di un’icona bizantina e il patetismo intimo e trepidante che caratterizza i maestri riminesi trecenteschi della seconda generazione. L’alta qualità del dipinto e la vibrante umanità del Cristo, che va al di là della meticolosa attenzione per i dettagli, suggeriscono che la mano del maestro sia quella di Pietro da Rimini.
Attorno alla nicchia si dispiega sulla parete un racconto in frammenti che resta ancora enigmatico. Da sinistra san Francesco, riconoscibile dalle stigmate, è genuflesso in preghiera: lo precede una figura in saio che porta il cordone francescano, ma di cui non vediamo il volto e l’identità. Poco distanti due giovani uomini, nobilmente vestiti, s’incontrano su un sentiero collinare: i due si abbracciano e si baciano sulla bocca; si tratta dell’osculum pacis, che spesso designa l’allegoria della Concordia. A destra della nicchia appaiono invece alcuni profili femminili attenti e in ascolto: sono forse i destinatari di un’omelia o di una rivelazione, o si raccolgono, piuttosto, in contemplazione di un evento sacro? Alcune donne hanno un aspetto aristocratico e una è incoronata.
La parete sinistra dell’abside, che porta con sé solo un ampio frammento di pittura, da cui traspaiono gli abiti di alcune figure, raccolte in colloquio, non può aiutarci molto a comprendere il tema. Molto più affascinante appare ciò che resta sulla parete di fondo dell’abside stesso, malgrado la mano non sembri essere all’altezza di quella che ha steso le pitture sulla parete destra: alla base di una grande crocifissione perduta resta per noi visibile e parlante il teschio di Adamo che, secondo antiche leggende cristiane, fu seppellito proprio sul Golgota o Calvario. Il sangue di Cristo scende fino alle fauci del morto, a nutrirlo: anche in tal caso il significato è eucaristico; il sacramento dell’altare, celebrato per i vivi e per i morti, riceve il suo potere salvifico dal sacrificio della croce e sottende l’idea della discesa agli inferi del Redentore per la liberazione dei prigionieri dalle cupe caverne dell’oltretomba e di Gesù come Nuovo Adamo. Il dipinto è accompagnato da diverse iscrizioni latine, elegantemente distribuite intorno alla pittura e contenute in sottilissimi righi. La più notevole recita, se interpreto bene: «O Adam sub pedibus te facit esse cibus»; cioè, «O Adamo sotto i piedi il cibo ti fa essere [cioè vivere]». Il testo, sembra riecheggiare la cristologia delle lettere di san Paolo, dove è scritto che «come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo»: il «sub pedibus» richiama il dominio del Redentore sul cosmo intero e la vittoria sulle forze avverse (I Cor. 15, 20-31).
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